STORIA AUTONOMISMO VENETO

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STORIA AUTONOMISMO VENETO

Solitamente quando si parla della storia dell’autonomismo Veneto la si fa coincidere con la storia della Liga Veneta. In realtà essa parte da quel lontano 12 maggio 1797, quando una seduta illegale del Maggior Consiglio della Serenissima dichiara sciolta la Repubblica di San Marco.

Come ha giustamente scritto Alvise Fontanella, “l’indipendentismo, nelle terre della ex Serenissima, è come un torrente carsico dai mille rivoli: che esistono anche prima della Liga, che affiorano e spariscono sottoterra, poi corrono a fianco di quella, ora scambiando acque, ora staccandosene per seguire altre strade”.
Nei giorni e nei mesi successivi, tanti sono a Venezia e nella Serenissima gli episodi che mostrano come i 1100 anni di buongoverno non si possano cancellare con una riunione; e che se la classe dirigente veneziana avesse dimostrato un briciolo di coraggio, le cose sarebbero forse andate diversamente. Facciamo qualche esempio.

Secondo lo storico svizzero Mallet Dupan,  “la riconoscenza veneziana verso Bonaparte si dimostrò con la sollevazione della terraferma, con la resistenza popolare di Venezia stessa all’abdicazione del governo, col saccheggio alle case delle persone destinate da Bonaparte a formare la municipalità provvisoria, con la lacerazione in pien meriggio di tutti gli ordini affissi di questa municipalità, e dei francesi per quindici giorni consecutivi, e finalmente colle maggiori testimonianze di dolore e di rabbia e di disprezzo espresse dal popolo in mezzo ai canoni, e alla forza dei suoi stessi oppressori. Dal gondoliere all’ultimo operaio dell’Arsenale, dal soldato schiavone all’ultimo sbirro, concittadini e cittadini tutti convennero unanimemente nell’odio verso i francesi e verso la loro rivoluzione”.

Il popolo veneziano viene a conoscenza  della decisione del Maggior Consiglio domenica 14, e già il 15 cominciano a entrare in città le truppe francesi, alcune centinaia di soldati e ufficiali rimasti fedeli alla Repubblica Veneta vengono arrestati. Gli schiavoni, che probabilmente sono i più decisi a combattere, vengono rispediti a casa.

Una stampa satirica di quei giorni raffigura una donna con un brutto muso da ladra, che rappresenta la libertà a cavallo di un asinello e porta nella mano sinistra una bandiera su cui è scritto: “popoli della terra ascoltatemi: io vengo a prendervi il vostro danaro, a farvi tutti soldati e poi ghigliottinarvi. Viva la libertà”.

Già il 20 maggio compaiono sui muri della città manifesti con le insegne del passato governo della Serenissima che irridono al nuovo governo “democratico”, e alla Pietra del Bando viene ritrovata una carta che attacca i francesi e la municipalità provvisoria,  “nemici del popolo e della libertà”. Quest’ultima si affretta a mettere taglie di mille ducati per smascherare i colpevoli e promette l’impunità ai delatori che siano stati complici del “misfatto”. Ma gli annunci e i manifesti del nuovo governo continuano a essere strappati impunemente.

A questo proposito  il «Monitore Veneto», giornale nato per diffondere le idee giacobine in laguna, si lamenta nel numero del 27 maggio che a Venezia non c’è grande entusiasmo per le conquiste della rivoluzione francese. Parlando di “torpore” e “lentezza”, scrive: “Sembra incredibile che questa gioventù, d’altronde sì brillante ed energica, non si presti per la pubblica causa con quell’ardore che l’è immediatamente necessario”. Il 29 dello stesso mese la municipalità provvisoria dà ordine di togliere tutti i leoni di San Marco “da tutti i luoghi ove esistono” della città. Vengono cambiati i nomi alle vie: le Procuratie Vecchie diventano la “Galleria della libertà”, quelle Nuove la “Galleria dell’eguaglianza”, il Teatro La Fenice cambia nome in “Teatro Civico”, Campo San Polo ottiene il nome di “Piazza della Rivoluzione” e al posto del leone di San Marco viene posta la statua di una donna seminuda raffigurante la Libertà.

Nonostante la martellante campagna mediatica avviata dai giacobini, l’ostilità verso i francesi continua a crescere. Il 24 luglio un rapporto del Comitato di salute pubblica informa i cittadini che “i pericoli della patria vanno crescendo ogni giorno”. “L’audacia dei malevoli alza impudentemente e impunemente la fronte, le divise nazionali sono oltraggiate, gli stessi rappresentanti del popolo sono motteggiati e avviliti; mille e mille carte incendiarie predicano l’insubordinazione alle autorità costituite; gli stemmi di San Marco si veggono malignamente affissi a tutti gli angoli della città. Le grida d’insurrezione ‘Viva San Marco’ allarmano i buoni cittadini. Il male è giunto al colmo e richiede estremi rimedi.”

Il Comitato di salute pubblica decide quindi di istituire una “guardia nazionale” e di punire con la pena di morte tutti coloro che saranno sorpresi a gridare “Viva San Marco”, ad affiggere stemmi con il leone, a diffondere carte sovversive, a incitare all’insurrezione.  Numerosi sono gli arresti e le fucilazioni.

L’occupazione francese dura pochi mesi. Il 17 ottobre 1797 Bonaparte cede Venezia all’Austria, e il 18 gennaio dell’anno seguente le truppe asburgiche fanno ingresso nella città. Dal 1806 al 1815 Venezia e il Veneto tornano sotto i francesi per venire nuovamente ceduti all’Austria con il Congresso di Vienna del 1816.

I moti popolari del 1848

L’indipendentismo veneto rivede la luce durante la rivoluzione del 1848-49. Il 22 marzo scoppia la Rivoluzione popolare e l’avvocato Daniele Manin, liberato dalla popolazione, proclama in piazza San Marco la Repubblica Veneta, di cui viene eletto presidente per acclamazione. In seguito altre città aderiscono, tra le quali Padova, Rovigo, Treviso, Udine,Vicenza e Belluno.

Va segnalato che anche numerosi dalmati corrono a difendere la rinata repubblica, e tra questi Nicolò Tommaseo che entrerà nel governo. Sostenitori della rivoluzione sono la borghesia e il popolo minuto, mentre i più tiepidi sostenitori dell’idea di una Repubblica Veneta li troviamo nei discendenti della nobiltà veneziana.

Questo almeno fino a luglio, quando provvedimenti del governo repubblicano atti a migliorare le condizioni della moltitudine di disoccupati – prodotto della guerra, delle sconfitte militari (in poche settimane tutta la terraferma era stata rioccupata dagli austriaci) e della conseguente crisi economica –  fanno sì che la borghesia influente si getti tra le braccia dei Savoia, che possono offrire dal punto di vista sociale e militare più garanzie. I fusionisti, che il 4 luglio ottengono l’adesione della Repubblica Veneta alla monarchia piemontese (con 127 voti a favore dell’assemblea repubblicana e 6 contrari), riescono a prendere il potere per pochi giorni, piegando la resistenza del Manin. Tra i contrari risulta anche Nicolò Tommaseo il quale, trovatosi in minoranza, si ritira dal governo.

Celebre in quei giorni la canzonetta dei gondolieri che dileggia i fusionisti: “No intendo ben sto termine ke sento dir fusiòn; me par che i se desmentega de meter prima un con”.

Ma in seguito all’ambiguità dei Savoia, che dopo la sconfitta di Custoza abbandonano i veneti in cambio di un armistizio, il potere viene ripreso dal Manin il 13 agosto. I commissari e le truppe piemontesi vengono cacciate o arrestate e la città si prepara a resistere. Ci riesce per un anno intero, fino al 24 agosto 1948, quando il governo provvisorio è costretto alla resa per fame e ritornano gli austriaci.

L’annessione all’Italia

Nel 1866 il veneto viene “liberato” dal dominio austriaco per passare sotto quello sabaudo (attraverso la Francia), nonostante la sconfitta di Custoza e di Lissa, quando la marina austro-veneta, composta in gran parte parte da marinai e ufficiali veneti, sconfigge la marina italiana, festeggiando al grido di “Viva San Marco”.

All’occupazione militare segue un plebiscito-farsa per legittimare l’annessione, con 641.757 voti favorevoli, 69 contrari e 366 nulli. Come leggiamo in Malo 1866 di S. Eupani,  “le autorità avevano preparato e distribuito dei biglietti col sì e col no di colori diversi; inoltre ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell’urna”.

Come ci racconta Domenico Pittarini nelle Elezioni comunali in villa, fu una vicenda tragicomica:

i contadino: Ciò, chi ghetu metesto ti sulle schene?

ii contadino: Mi gnente, me la ga consegnà el cursore scrite e tuto.

i contadino: E anca mi istesso, manco fadiga.

ii contadino: Manco secade.

I parroci delle campagne sono oggetto di pressioni e minacce fisiche e verbali per indurli a influenzare il voto in favore dell’italia, ma nonostante ciò fortissima è l’astensione dal voto.

Da quel momento inizia per il Veneto la peggiore delle dominazioni straniere. Sotto l’Austria mancava sicuramente la libertà, ma almeno dal punto di vista economico le cose andavano relativamente bene, con un governo che considerava il Veneto una parte importante dell’impero e non una semplice colonia da sfruttare. Scrive a questo proposito l’«Arena di Verona», giornale da sempre nazional-tricolore, che il 9 gennaio 1868 denuncia: “Fra le mille ragioni per cui noi abborivano l’austriaco regime, ci infastidiva sommamente le complicazione ed il profluvio delle leggi e dei regolamenti, l’eccessivo numero degli impiegati e specialmente di guardie e di gendarmi di poliziotti e di spie. Chi di noi avrebbe mai atteso che il governo avesse tre volte tanto di regolamenti, tre volte tanto di personale di pubblica sicurezza, di carabinieri, ecc..?” Dalla padella nella brace, insomma.

Con l’arrivo dei tagliani comincia per i veneti un vero e proprio olocausto: l’aumento esponenziale delle tasse, la vendita delle terre comuni, la militarizzazione del territorio e la coscrizione obbligatoria portano in pochi anni all’emigrazione di quasi il 25% della popolazione.

I sentimenti dei contadini veneti verso gli occupanti sono ben descritti dalle poesie del poeta veronese Berto Barbarani e dalle canzoni e ninne nanne che si sono tramandate fino ai giorni nostri: “Bianco rosso, e verde, el color dele tre merde, el color dei panisei, la caca dei putei”…

I va in Merica

Fulminadi da un fraco de tempesta,
l’erba dei prè par ‘na metà passìa,
brusà le vigne da la malatia
che no lassa i vilani mai de pèsta;

ipotecado tuto quel che resta,
col formento che val ‘na carestia,
ogni paese el g’à la so angonia
e le fameie un pelagroso a testa!

Crepà la vaca che dasea el formaio,
morta la dona a partorir ‘na fiola,
protestà le cambiale dal notaio,

una festa, seradi a l’ostaria,
co un gran pugno batù sora la tola:
“Porca Italia” i bastiema: “andemo via!”

E i se conta in fra tuti.- In quanti sio?
– Apena diese, che pol far strapasso;
el resto done co i putini in brasso,
el resto, veci e puteleti a drio.”

“Co San Marco governava

Se disnava e se senava;

coi francesi bona zente

se disnava solamente;

co la casa de Lorena

no se disna e no se sena;

e col regno de Sardegna

chi lo a in tel cul

se lo tegna!”

“Co le teste dei tagliani

zogaremo le borele (bocce)

e Vittorio Manuele

metaremo par balin”

“Vegnarà Vitorio Manuele

Se patirà ‘na stissa de coele

‘l vegnerà con mostaci e barbeta

se patirà na fame maledeta”

 

“Se dura el furor dei monumenti

Un monumento avrà Quintino Sella

Che con un tratto di saggezza rara

La polenta ci ha resa assai più cara

SENTIMENTI AUTONOMISTICI NEL REGNO D’ITALIA

Nella Venezia Euganea il ricordo di numerosi secoli di autogoverno non era comunque nel frattempo andato perduto. Basterebbe rileggere gli atti del Parlamento italiano per averne una conferma.

Tra i primi eletti in parlamento ricordiamo Nicolò Tommaseo  e Alberto Mario che si  rifiutarono di entrare in parlamento dopo l’elezione per non giurare fedeltà ala monarchia.

In particolare Alberto Mario, nativo di Lendinara (Ro) e garibaldino convinto, scrive alcuni anni più tardi: “e la centralizzazione sta tutta racchiusa nel legislatore unico e nella legge unica in cotanta diversità di popoli, di tradizione, di genio, di linguaggio, di interessi, di costumi, di civiltà. Or come la stessa legge civile e penale e finanziaria e comunale e di sicurezza pubblica e di lavori pubblici può adattarsi alla Basilicata e alla Toscana, alla Val di Mazzara e alla Venezia, alle popolazioni dell’Appennino calabrese e alla montagna di Pistoia?”

Ferruccio Macola direttore della Gazzetta di Venezia nella “Relazione sul progetto per costituire una federazione politica regionale” del 7 Giugno 1889 denuncia con argomentazioni che un secolo più tardi verranno bollate come “leghiste” la situazione di stampo colonialista nella quale si era venuto a trovare il Veneto (tra i veneti nessun ministro, nessun segretario generale, nessun generale, e comunque pochissimi dipendenti pubblici), il continuo drenaggio di risorse dal Veneto e dalla Lombardia verso il meridione e conclude con: “La federazione veneta ha lo scopo di tutelare efficacemente con i mezzi di cui può disporre, gli interessi della regione, troppe volte trascurati.”

Per quanto riguarda la prima metà del ‘900 ricordiamo l’avvocato on. Italico Corradino Cappellotto. Democratico cristiano, ex murriano, dirigente sindacalista cattolico di sinistra fin dall’anteguerra, parlamentare uscente del Partito Popolare, che alle elezioni politiche generali del 15 maggio 1921 presenta a Venezia e Treviso una lista autonoma, denominata nientemeno che “Leone di San Marco”.

Non riesce a farsi rieleggere, ma il suo movimento ottiene un sorprendente 6,1% in provincia di Treviso, raggiungendo punte del 20% in quelle realtà rurali che, sessant’anni dopo, contribuiranno in maniera determinante a decretare il successo della Liga Veneta. La lista di Cappellotto non si ripresenta nel 1924. La vittoria del Blocco Nazionale Fascista, grazie alla legge Acerbo limita tutte le libertà politiche ed associative, impedendo quindi anche la maturazione delle idee portate avanti dall’avv. Cappellotto, sicuramente lontane mille miglia dai miti della romanità imposti durante il ventennio.

Crollato il regime, le forze antifasciste, che comunque ricorrono al linguaggio patriottico formatosi nel ricordo della guerra precedente, non brillano per lungimiranza: certo l’Italia è da ricostruire, ma sul mito dell’indivisibilità e dell’unità ad ogni costo l’intransigenza resta massima. Oggi sappiamo con certezza che anche durante la resistenza in Veneto vi sono state istanze federaliste, tali da interessare e preoccupare il nuovo governo. Con un’intervista all’organo del partito socialista “Avanti!” il professor Ugo Morin, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale Veneto, parla di “persone che tendono ad una autonomia integrale del Veneto e alla costituzione di una Repubblica di San Marco”. Su richiesta del Ministero dell’Interno il professore Morin smentirà più tardi l’intervista, ammettendo però che “in alcuni partiti, nonché in vasti strati della popolazione, esiste una accentuata tendenza alla autonomia”.

Certo è che nella primavera del 1945 viene  stampato un volantino dall’associazione “San Marco per forza”, nel quale si sostengono posizioni ispirate ai princìpi del federalismo e all’autonomia.

Ancora,  Silvio Trentin nato a San Donà di Piave l’11 novembre 1885, esule antifascista in Francia, che con il suo progetto per una costituzione federalista del 1943 coniuga l’idea di una Italia federale in una federazione europea, ponendo il principio che “ciascun cittadino della Repubblica federale gode, oltre alla nazionalità italiana, cittadinanza di una delle Regioni della Repubblica”.

I costituenti, nonostante l’insensibilità alle tematiche federaliste, inseriscono nell’ordinamento statuale il decentramento amministrativo, con una serie apparentemente consistente di deleghe per l’ente regionale. La mancata applicazione degli art.114 e seguenti della Costituzione è alla base delle prime istanze autonomistiche della seconda metà del secolo. Ma quel Movimento Autonomo Regionalista Veneto sorto agli inizi degli anni sessanta per opera del padovano Elio Franzin al fine di perorarne la causa, all’epoca delle prime elezioni regionali del 1970 è già dissolto.

LO STATUTO REGIONALE

Un punto di svolta per l’indipendentismo veneto è certamente l’approvazione dello Statuto della Regione Veneto da parte del parlamento italiano: Il 22 maggio 1971 dopo 122 anni sembra possibile se non un ritorno all’indipendenza almeno il via ad un nuovo periodo di autonomia del Popolo Veneto all’interno della Repubblica Italiana. In particolare l’articolo 2 L’art. 2 della legge 340/71   riconosce, testualmente, il diritto all’”autogoverno del popolo veneto”, unico caso di tutta la penisola.  In realtà il governo regionale non diviene altro che un organo esecutivo di ordini provenienti da Roma, controllato direttamente e pesantemente nei suoi atti dalle istituzioni centrali ed indirettamente dai partiti romani che hanno il controllo totale del consiglio regionale.

I primi sentimenti identitari ed autonomistici si sviluppano all’interno dell’Associazione Archeologica Altinum, luogo di ritrovo di intellettuali da tutto il veneto, uniti sotto la guida di Francesco Pescarollo dalla curiosità e dalla passione per la storia veneta.

il gruppo si occupa sia di scavi archeologici, con particolare riferimento ai siti dei paleoveneti, sia di storia, con corsi tenuti da docenti universitari aperti al pubblico. Collabora con l’associazione Altinum anche il Gruppo Archeologico del Montello, animato da Tarcisio Zanchetta.

Col passare del tempo Franco Rocchetta, uno dei consiglieri dell’Altinum, comincia a sollevare il problema del mancato riconoscimento da parte dello Stato italiano della lingua veneta e della necessità di iniziare un nuovo lavoro, su basi filologiche, per affermarne la dignità.

Nasce qui l’idea di fondare  il 16 Febbraio 1977 la Società Filologica Veneta, associazione veneziana con lo scopo di “ampliare e diffondere la conoscenza e la coscienza del patrimonio linguistico veneto, per riaffermare il diritto della nazione veneta – così come di ogni altra nazione popolo o comunità – al mantenimento e allo sviluppo della propria cultura, della propria lingua, delle proprie radici e della propria identità secondo lo spirito della carta dell’O.N.U., della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, della Costituzione italiana, dello Statuto dell’A.I.D.L.C.M., della carta di Helsinki, del Manifesto della lingua veneta, degli Statuti della Regione Veneto e delle Regioni Vicine; per contribuire al superamento dei crudeli pregiudizi e delle pratiche discriminatorie e snaturalizzatrici per troppi decenni portate avanti contro la cultura veneta, per riaffermare il diritto dei Veneti all’uso pieno della propria madrelingua ad ogni livello della vita sociale, per promuovere l’uso e lo studio della lingua veneta e l’insegnamento della storia della civiltà veneta nelle scuole di ogni ordine e grado del Veneto e dei territori europei ed extraeuropei dove vivono comunità venete, per favorire il ripristino della toponomastica veneta, per contribuire al riconoscimento concreto dei medesimi diritti alle minoranze stanziate in territorio veneto ed a TUTTe le nazioni, i popoli, le comunità e le minoranze.”

L’attività della Società Filologica Veneta si riconsce nel Manifesto della Lingua Veneta diffuso in molti territori di lingua e cultura veneta sin dal gennaio 1978, il “gruppo storico” – che poi diventerá il Consiglio Direttivo della Societá Filologica Veneta – é composto da Renata Capitanio, Maurizio Calligaro, Giulo Pozzana, Otello Seno, Maria Chiara Zambon, Franco Rocchetta e Mariarosaria Stellin.

Buona parte degli aderenti proviene da contenitori da politici dell’area della sinistra extraparlamentare, quali ad esempio Lottta continua e il Partito Radicale.

L’associazione entra nell’A.I.D.L.C.M. – Associazione Internazionale per la difesa delle lingue e culture minacciate – partecipa a convegni internazionali e nazionali, ma soprattuto da vita a un serrato confronto ed ad un rapporto di collaborazione con il mondo accademico, in particolare con il Prof. Manlio Cortellazzo e il Prof. G.B. Pellegrini.

Si da via ad un continuo lavoro di informazione (volantini, lettere ai giornali, ecc) e  comincia per la prima volta un accesso dibattito, anche sui mass media, sull’opportunità di introdurre l’insegnamento della lingua veneta nelle scuole. Cominciano inoltre ad essere redatti i primi volantini in lingua veneta, gli adesivi con scritto “Mi a son veneto. E ti?” e le prime apparizioni pubbliche.

Alla fine del  1978, grazie all’ospitalità di Michel Gardin, danno vita al  primo corso di lingua e cultura veneta presso l’Istituto Linguistico “Bertrand Russell” di Padova. Il corso-suddiviso in tre sezioni, storia veneta, lingua veneta e civiltà veneta – dura sei mesi ed è un successo.

Negli stessi anni in cui la Società Filologica Veneta muove i suoi primi passi, a Belluno fervono sentimenti autonomistici più marcati.

Il Bellunese si trova in quegli anni stretto tra due realtà fresche di autonomia come Trento e il Friuli Venezia Giulia, e  da più parti si sente l’esigenza di maggiore autonomia politica ed economica. Nasce così un movimento sovrapartitico denominato “Autonomia Bellunese” che riesce a coagulare gli interessi più diversi (chiesa, associazione nazionale alpini, associazioni degli emigranti bellunesi) uniti dalla identità locale e dalla necessità di ottenere una qualche forma di autogoverno.

Compare anche il primo gruppo clandestino che teorizza l’uso della lotta armata per arrivare all’indipendenza: Armata Dolomitica Indipendentista, così si chiama questo gruppo di cui non sappiamo praticamente nulla e che teorizza sull’onda dell’esempio sudtirolese la legittimità morale di azioni come il far saltare in aria i tralicci per arrivare alla  creazione della Repubblica Dolomitica con l’espulsione di tutti  gli italiani dal territorio provinciale.

“Indipendenza o morte!”, così termina il programma dell’A.D.I., ma in realtà non si hanno notizie di attività operative del gruppo.

Intanto più a sud il gruppo facente capo ala S.F.V. continua lentamente a crescere e nel marzo 1979 MariaRosaria Stellin , Michel Gardin e Franco Rocchetta partecipano su invito al congresso dell’Union Valdôtaine, che offre a tutti i i rappresentanti degli autonomisti della penisola la possibilità di partecipare alle prime elezioni europee.

I veneti accettano di partecipare alle elezioni e in loro rappresentanza viene candidato il professore padovano Achille Tramarin che con una campagna basata su semplici manifesti murali scritti a mano ottiene ben 8.000 voti.

Il buon successo della tornata elettorale porta però il gruppo ad un bivio. Mentre una parte aveva visto la partecipazione alla competizione elettorale europea come una breve parentesi, ed era decisa ad occuparsi esclusivamente di cultura, un’altra parte degli aderenti era decisa più che mai a continuare l’esperienza politica.

Si arriva così ad un progressivo distacco, con la Società Filologica Veneta presieduta da Mariarosaria Stellin che continua  nel tempo nell’organizzazione di corsi e seminari culturali e con un gruppo facente capo a Franco Rocchetta che si lancia nell’arena politica.

Nell’autunno dello stesso anno  si tengono infatti numerose riunioni del gruppo coinvolto nell’esperienza elettorale europea. Continuano ad essere affissi manifesti scritti a mano e compaiono anche i primi stampati, cominciano ad apparire sui cavalcavia le prime scritte “Veneto libero”, “il Veneto ai Veneti”, “Fora i Romani dal Veneto” e  il 9 dicembre a Recoaro Terme (VI) si tiene la prima riunione pubblica della “Liga Veneta”, denominata “congresso”. Assente Franco Rocchetta, tra il centinaio di partecipanti molti esprimono una forte vena di antimeridionalismo.

L’antimeridionalismo, sentimento che in questo periodo ha iniziato a manifestarsi, non derivava da nessun tipo di razzismo quanto piuttosto da un convinto antistatalismo. In Veneto i meridionali sono relativamente pochi in confronto a quanto accade nelle altre regioni del settentrione e qui sono giunti in seguito alla “meridionalizzazione” degli apparati dello Stato italiano e non tanto a causa di un boom economico. Ecco dunque che magistrati, insegnanti, dipendneti delle ferrovie, delle poste e prefetti diventano in gran parte meridionali.

Alla pari dello Stato, il meridionale diviene un corpo estraneo, inutile o addirittura quasi dannoso e il meridione assume la connotazione di un freno per lo sviluppo dell’economia veneta, insomma, una “palla al piede”.

Alla prima riunione della Liga Veneta partecipa uno spaccato dell’intera società veneta: persone appartenenti ad associazioni culturali, ai circoli dell’ARCI, ai sindacati, a gruppi di estrema destra e di estrema sinistra, con titoli di studio e condizioni sociali di tutti i tipi. Quello che li lega tutti è il forte orgoglio dell’appartenenza etnica e culturale al Popolo Veneto, oltre che all’odio nei confronti delle istituzioni italiane e, dunque, dei meridionali da cui sono gestite.

Il ceto medio delVeneto inizia quindi a reclamare una sua rappresentanza politica, capace di difendere le conquiste economiche e le peculiarità culturali di quest’area così forte economicamente. Per questi motivi, in quell’occasione viene presa la decisione di fondare il movimento politico. Di lì a poco, il 16 gennaio 1980, nasce ufficialmente la Liga Veneta.

I soci fondatori del movimento sono: Michel Gardin di S.Giustina in Colle (PD), Luigi Ghizzo di Farra di Soligo (TV), Bruno da Pian di Venezia, Patrizio Caloi di Erbè (VR), Paolo Bergami di Padova, Giuseppe Faggion di Quinto (VI), Marilena Marin di Conegliano (TV), Agostino Alba di Vicenza, Giannico Faggion di Quinto (VI), Rino Basaldella di Venezia, Valerio Costenaro di Marostica (VI), Luigi Fabris di Conegliano (TV), Guido Marson di Gorgo al Monticano (TV) e Achille Tramarin di Padova. La versione finale dello statuto viene materialmente stesa da Tramarin, mentre Gardin ne disegna il simbolo. Franco Rocchetta non è tra i soci fondatori ma viene cooptato nella prima riunione del nuovo movimento politico.

Gli obiettivi prefissati dal nuovo movimento sono undici:

  1. Per l’Autogoverno del Veneto, superando il sistema partitico italiano, attraverso la istituzione della REGIONE AUTONOMA DEL VENETO A STATUTO SPECIALE.
  2. Per la precedenza ai Veneti nell’assegnazione di qualsiasi lavoro, carica, abitazione, assistenza, contributo finanziario nel Veneto.
  3. Per la riaffermazione della nostra cultura e storia, della nostra lingua veneta, dei nostri valori morali e sociali di Veneti.
  4. Perché i frutti del lavoro e le tasse dei Veneti siano controllati e gestiti dai Veneti, attraverso l’organizzazione di un Sistema Finanziario Veneto parallelo a quello in via di attuazione nel vicino Trentino-Sud Tirolo, secondo gli articoli dal 69 all/86 del Testo Unificato delle Leggi (il Pacchetto) sullo Statuto Speciale per il Trentino-Sud Tirolo, ed altri da determinare in conformità alla tradizione veneta ed alle necessità inalienabili del Popolo Veneto.
  5. Perché l’amministrazione, i servizi sociali e sanitari e la scuola nel Veneto tornino ad essere gestiti da Veneti non naturalizzati.
  6. Perché la giustizia nel Veneto torni ad essere ispirata ai principi veneti di sempre, e combatta con efficacia e con adeguati strumenti delinquenza, mafie e racket.
  7. Contro la mentalità opportunistico-mafiosa del governo di Roma; contro la conseguente degradazione del Veneto e la persistente emigrazione dei Veneti dala loro terra.
  8. Contro la negazione dei nostri diritti di POPOLO EUROPEO e gli attentati alla nostra identità.
  9. Contro la devastazione e la svendita del nostro territorio (plasmato e difeso dalle nostre generazioni precedenti), patrimonio che abbiamo il dovere di trasmettere integro alle prossime generazioni.
  10. Per favorire il reinserimento di quegli emigranti veneti che intendono ritornare. Per rafforzare i rapporti tra la Madre Patria Veneta e le Piccole Patrie Venete disseminate nel mondo.
  11. Per la costruzione dell’Unità Europea fondata sul federalismo ed il rispetto reciproco e la solidarietà diretta tra TUTTI i popoli del Continente, e quindi tra i Veneti e ogni altro popolo europeo.

Diverso tempo dopo, Rocchetta si attribuirà l’intero merito di aver ideato e creato la Liga Veneta, sostenendo di averne proposto il nome dieci anni prima, più precisamente il 18 agosto a Danzica, nella chiesa di Santa Maria, per suggerire un parallelo tra le richieste autonomistiche dei polacchi e quelle dei veneti.

LE PRIME PROVE ELETTORALI

Di lì a poco, l’Università di Padova istituisce ufficialmente un corso di Dialettologia Veneta su iniziativa del prof. Manlio Cortelazzo, dell’Istituto di Glottologia e Fonetica, che manda un proprio collaboratore al secondo incontro pubblico della Liga Veneta. Il docente universitario rifiuterà tuttavia un proprio coinvolgimento nelle vicende del movimento indipendentista. Nel frattempo, la Società filologica Veneta continua il suo lavoro di formazione culturale, e continuerà a farlo fino ai giorni nostri, con la nuova denominazione  di Associazione Europa Veneta.

Lo stesso anno si svolgono le elezioni amministrative, primo vero banco di prova per la nascente formazione politica che, riuscendo a raccogliere le firme necessarie a Padova e a Vicenza, ottiene 12.000 voti, pari allo 0,5%. L’unico consigliere eletto è Claudio Pizzati a Valdagno (VI), che verrà espulso di lì a poco tempo dal movimento.

L’intera storia dell’autonomismo veneto è caratterizzata da una lunghissima serie di espulsioni, che inevitabilmete inciderà negativamente sul suo stesso sviluppo. L’espulsione dei dissidenti divverrà infatti una consuetudine di ogni movimento autonomista veneto negli anni a seguire, portando ad una frammentazione dello stesso e a pesanti conseguenze nel tempo.

I tre anni seguenti vedono da una parte la riduzione dell’attivitò della Liga Veneta e dall’altra una continuazione dei corsi di dialettologia veneta del prof. Cortelazzo. Il gruppo politico riprende vigore in concomitanza con le elezioni politiche del 1983, quando iniziano ad apparire i manifesti e le scritte murali come … Nonostante la campagna stampa che ne segue attribuisca a questi slogan significati razzisti, la Liga riesce a raccogliere comunque le firme necessarie per presentare le liste senatoriali in tutta la regione e ottiene ben 125.347 voti per la Camera dei deputati, apri al 4,3%, e 91.122 voti per il senato. Risultano eletti Achille Tramarin, segretario del movimento, a Montecitorio e Graziano Girardi a Palazzo Madama. La campagna elettorale è costata meno di dieci milioni di lire dell’epoca e, pur presentando candidati spesso sconosciuti la Liga Veneta diviene la seconda forza politica in molti comuni della Pedemontana, dietro all’ancora forte Democrazia Cristiana, riuscendo ad ottenere ottimi risultati importanti in molti centri industriali della regione.

Ma chi è l’elettore della Liga Veneta?

Senza ombra di dubbio una grossa fetta dei votanti sono persone che fino a questo momento hanno sempre votato per la Democrazia Cristiana, anche se fin da subito emerge chiaro un fattore importante: la Liga è l’unico movimento politico davvero traversale, capace di raccogliere consensi da destra a sinistra indifferentemente.

I mass media etichettano fin da subito il movimento come una formazione politica intollerante, di scarsa cultura e provincialista. Nessun giornalista o quasi si accorge che il risultato assolutamente sorprendente della Liga Veneta è frutto di un malessere avvertito da tempo sul territorio.

La DC e il PCI e gli altri partiti tradizionali provano ad analizzare le cause del “fenomeno Liga”, pur comunque minimizzandolo e individuando le cause del successo esclusivamente come problemi interni alle loro organizzazioni e non ai meriti di quanto la Liga Veneta proponeva.

Domenico Buffarini, dirigente comunista residente in Veneto ma di origini romane, è uno dei primi a riconoscere l’esistenza di una lingua, di una Storia, di una cultura e, quindi, di una etnia veneta come cause di un voto identitario. Buffarini riconosce anche al programma della Liga Veneta caratteristiche di innovazione, di cambiamento e di modernità politica.

Interviene poi sullo stesso tema un giornalista bellunese, Toni Sirena, che nel 1984 scrive:

“..il senso di appartenenza ad una comunità ed il bisogno di identità locale, il rifluire sul locale, come dimensione più ‘privata’ della politica, la difesa dei localismi e dei campanilismi, sono tutti elementi centrali della cultura veneta e propri della cultura democristiana. Ma vengono ora forzati e portati fino alle  conseguenze più estreme dalla Liga Veneta. Essa può esprimere allora, oltre ad istanze regressive, anche e contemporaneamente tendenze progressiste, della ricomposizione della crisi attraverso una ridefinizione dei ruoli, degli apparati, della riorganizzazione dello Stato. La specificità veneta va colta piuttosto in una tradizione storica – che riemerge in questo vuoto di valori e di riferimenti – di regionalismo e federalismo (nel Risorgimento, ad esempio), di autogoverno (perfino nel periodo austriaco), di compiuta autonomia statale (nel periodo veneziano), di suggestioni separatiste (indotte dalla vicinanza di Regioni a statuto speciale), di eredità linguistica (il “veneto” come lingua ufficiale della Serenissima)”.

Il malessere covato da tempo all’interno della società veneta trova quindi per la prima volta uno sbocco politico e un’attenzione nuova.

A mantenere un atteggiamento più prudente, se non per certi versi addirittura ambiguo, è il Gazzettino, l’organo di informazione regionale più diffuso: il quotidiano tende infatti da un lato a cavalcare le motivazioni della protesta e dall’altro a screditare gli organi dirigenti del movimento. L’intento è probabilmente quello di mostrarsi come voce del cambiamento, nel tentativo di acquistare credibilità per poterla usare poi a favore di altre formazioni politiche meno scomode rispetto Liga Veneta.

SORGONO I PRIMI PROBLEMI

I primi problemi non tardano però ad arrivare: la Liga Veneta si dimostra fin da subito carente da un punto di vista politico ed organizzativo. Non mancano inoltre preoccupanti segnali di personalismi al suo interno, che rischiano di buttare al vento il consenso finora raggiunto, oltre ai soldi ricevuti dal finanziamento pubblico.

Rocchetta infatti, nonostante l’alto numero di preferenze personali raggiunto alle precedente consultazione elettorale, non digerisce la sua mancata elezione a deputato dovuta a meccanismi elettorali e cerca di imporre a Tramarin le proprie dimissioni dal parlamento romano per poterlo così sostituire. Secondo lo statuto della Liga Veneta infatti, la carica di segretario del movimento detenuta da Achille Tramarin è incompatibile con la carica di parlamentare, anche se tuttavia, in caso di dimissioni, il nuovo parlamentare sarebbe diventato Ettore Beggiato.

Si arriva dunque alla spaccatura nella Liga: il 9 Ottobre Tramarin convoca a Padova un congresso che lo riconferma alla guida del movimento ed elimina le  incompatibilità statutarie. Rocchetta, parallelamente, ne convoca un altro a Treviso, prima in sessione straordinaria il 12 novembre e poi in seduta ordinaria il 27 dello stesso mese. In quest’occasione vengono espulsi i “dissidenti” e fa eleggere segretaria del gruppo politico Marilena Marin.

La vicenda si conclude in seguito nel peggiore dei modi, all’interno tribunali italiani dove si protrae per diversi anni. A causa di sentenze contraddittorie viene bloccato il finanziamento pubblico al movimento.

Tutti questi personalismi e divisioni interne apportano una inevitabile e profonda delusione in tutti colo che ha appoggiato la Liga Veneta con spirito di ideale. Si assiste così ad un progressivo allontanamento di energie, anche culturali, di cui il movimento necessita fortemente.

I contrasti interni proseguono poi in concomitanza con le elezioni europee del 1984, quando l’onorevole Achille Tramarin tenta di presentare il simbolo al Ministero dell’Interno, ma gli viene impedito fisicamente da una aggressione proprio davanti ai cancelli del vicinale. Franco Rocchetta si ritrova quindi senza concorrenti, presenta il suo simbolo e riesce a proporsi a tutte e cinque le circoscrizioni. Ottiene in totale 160.955 voti, grazie ad un accordo con Lega Autonomista Lombarda, Movimento d’Arnassita Piemonteisa, Partito Federalista Europeo e Partito Popolare Trentino Tirolese.

In Veneto il calo elettorale si dimostra consistente e i voti acquisiti non sono sufficienti per arrivare ad ottenere un rappresentante a Strasburgo. I litigi interni al movimento hanno lasciato il segno e sul territorio il lavoro di propaganda è stato largamente insufficiente.

I voti calano ulteriormente  alle successive elezioni regionali, nel maggio 1985; tuttavia con il 3,7% raggiunto la Liga Veneta riesce ad ottenere due consiglieri regionali, Ettore Beggiato e Franco Rocchetta, sette consiglieri provinciali e una quarantina di consiglieri comunali.

Nel frattempo la Lega Lombarda e il Movimento d’Arnassita Piemonteisa riescono a correre in Lombardia e Piemonte con i rispettivi simboli, grazie all’accordo dell’anno precedente riguardante le europee, che prevede anche il prestito di alcune decine di milioni di lire. I risultati solo però e nel Lazio il simbolo della Liga Veneta porta all’elezione del consigliere regionale Giulio Cesare Graziani, fruttando al movimento venetista un congruo rimborso elettorale.

Non ottiene invece nessun eletto il professor Tramarin, presentatosi con una sua lista denominata “la Serenissima Union Veneta”.

Il calo elettorale rende  chiaro a molti aderenti al movimento che per arrivare a risultati significativi sono necessarie alcune modifiche organizzative e strutturali. Apertura di sedi sul territorio, organizzazione di scuole quadri, aumento delle risorse per la propaganda e soprattutto un cambiamento della struttura verticistica e quasi famigliare che caratterizzava la struttura della Liga. Rocchetta si mostra sordo alle richieste e in due anni le attività di rilevo del movimento si contano su una mano: l’apertura del giornale Mondo

Veneto, la distribuzione di gadget e la piantumazione “dell’albero dell’amicizia armeno-veneta” nell’isola di San Lazzaro.

Per iniziativa del consigliere provinciale vicentino Luigino Chemello tutti gli iscritti al movimento vengono pubblicamente convocati per un congresso, con all’ordine del giorno le modifiche statutarie necessarie a conferire democraticità ed incisività all’azione politica del movimento. La reazione di Rocchetta non si fa attendere: espulsione immediata di Chemello e di tutti i dissidenti, tra i quali Ettore Beggiato. In seguito a queste  decisioni, la Liga Veneta si presenta all’appuntamento con le elezioni politiche del 1987 decimata, ed alleata con il gruppo “Pensionati Uniti” dell’ex-parlamentare missino Stefano Menicacci.

Nelle tre circoscrizioni del Veneto viene imposta quale capolista Marilena Marin, moglie di Rocchetta dall’anno precedente. Nel resto d’Italia ha mano libera Menicacci, e la presentazione delle liste in Lombardia provoca la collera di Umberto Bossi, che evidentemente riteneva la L.V. un alleato affidabile. La lista ottiene 298.000 voti alla Camera, e 297.000 al Senato.

Ne servivano solo 1.500 in più per arrivare ad eleggere un parlamentare: nella circoscrizione del Veneto occidentale, infatti, si presenta il Movimento Veneto Regione Autonoma, capitanato dai fratelli Geppino e Umberto Vecchiato di Borgoricco (PD), nato da una delle tante defezioni lighiste. Con il supporto di molti tra coloro che sono stati allontanati dalla Liga Veneta, l’M.V.R.A. (che scompare dalla scena fino alle elezioni successive) ottiene circa 19.000 voti. Pochi per sperare in un seggio parlamentare, sufficienti per far mancare di un soffio il quorum alla L.V.: niente quorum, niente ripartizione nel seggio unico nazionale. Risultato: pur con quasi 300.000 voti, la Liga Veneta perde la sua rappresentanza parlamentare.

La Lega Lombarda riesce, pur con il disturbo della Liga Veneta-Pensionati Uniti, ad eleggere il deputato Giuseppe Leoni ed il senatore Umberto Bossi: i rapporti di forza cambiano, in favore del Senatùr, il quale rimane comunque fedele alla Liga Veneta.

L’atteggiamento di Rocchetta e della moglie  verso la base, nonostante la pesante sconfitta non cambia: le richieste di cambiamento di rotta vengono evase seguendo la solita strada, l’espulsione dei dissidenti.

Questi si radunano allora in una nuova formazione politica e nel novembre 1987 viene fondata l’Union del Popolo Veneto con coordinatore il consigliere regionale Ettore Beggiato. Con il primo congresso, nel febbraio 1988, viene eletto segretario il consigliere provinciale Gianni Butturini, presidente lo stesso Beggiato. Tra gli aderenti troviamo anche il professor Achille Tramarin.

Unna delle prime decisioni assunte dal Consiglio Federale dell’U.P.V. è quella di dare alle stampe l’organo ufficiale del movimento “Veneto Novo”. Il primo banco di prova per la nuova formazione sono le elezioni comunali nella città di Belluno, mentre la Liga Veneta riesce ad eleggere un consigliere, Doriano Cadorin, l’U.P.V si ferma allo 0,6%.

Il primo risultato di rilievo dell’U.P.V. viene da Ettore Beggiato che riesce a far approvare dal Consiglio regionale una mozione sull’esposizione della bandiera veneta, senza ottenere sostegno da parte del consigliere lighista Rocchetta. Tra gli atti parlamentari regionali depositati dall’U.P.V, va segnalata la proposta di modifica dell’art. 117 della Costituzione, nonché il progetto per l’istituzione del Senato delle Regioni. Il 20 luglio 1988 Ettore Beggiato presenta il disegno di legge per la costituzione della Regione Veneto a Statuto Speciale, raccogliendo nelle piazze del Veneto 50.000 firme di sostegno.

Nel 1989 due sono gli appuntamenti elettorali. Alle elezioni comunali di medio termine del 28 maggio 1989 Liga Veneta ed Union del Popolo Veneto si scontrano a Feltre (BL); entrambe presentano candidati locali, ma nessuno dei due schieramenti entra in municipio: la L.V. si assesta sul 2,9%, l’U.P.V. raggiunge il 2,4%. La settimana successiva è la volta delle elezioni europee. La Liga Veneta confluisce nell’Alleanza Nord, nata a Bergamo poco prima, mentre l’Union del Popolo Veneto aderisce al cartello “Federalismo” assieme a Union Valdôtaine, Partito Sardo d’Azione, Slovenska Skupnost, Union Für Süd-Tirol, Union Furlane, Movimento Autonomista Occitano e Movimento Meridionale. L’impossibilità di raccogliere le 35.000 firme indispensabili per chi non sia rappresentato in parlamento provoca la scomparsa del leone marciano dalle schede elettorali. Il 18 giugno 1989 l’autonomismo veneto raggiunge il più basso livello di consensi. Alleanza Nord, nella cui lista figurano ai primi tre posti Franco Rocchetta, la moglie Marilena Marin ed il suo parente Rodolfo Herbst, non va oltre l’1,7% nel Veneto, mentre “Federalismo” agguanta un misero 0,3%, più o meno quanto l’Union Valdôtaine dieci anni prima .. Ciò nonostante, senza i circa 8.500 voti conquistati nel Veneto, il sardista Mario Melis non avrebbe conquistato il seggio a Strasburgo. Dal canto suo, Alleanza Nord ottiene a livello nazionale l’1,7% e due eurodeputati, con un consistente successo in Lombardia e Piemonte. Raggiunto il minimo storico, l’autonomismo veneto viene dato frettolosamente per spacciato dalla maggior parte degli osservatori politici. In realtà, tali previsioni sono poco oculate: l’effetto “traino” che la Lega Lombarda di Umberto Bossi avrà negli anni successivi in Veneto si andrà a saldare con la stagione di Tangentopoli, producendo consensi notevoli ed inaspettati.

Le elezioni europee del 1989 segnano il punto di svolta nell’autonomismo veneto. Al minimo storico raggiunto in Regione fa da contraltare l’imperiosa irruzione della Lega Lombarda, che provvede presto a modificare l’essenza delle proprie rivendicazioni. L’anima etnico-culturale viene sopraffatta, ed il partito di Bossi tenta di assumere la rappresentanza del mondo produttivo, in particolare dei piccoli e medi imprenditori, ignobilmente vessati da un’amministrazione statale viscosa e parassitaria.

Le parole d’ordine del senatùr trovano terreno fertile in Veneto, laddove una Liga Veneta morente, un Movimento Veneto Regione Autonoma inesistente ed un’Union del Popolo Veneto scarsamente incisiva non riescono a catalizzare consensi elettorali.

Il 4 novembre 1989, dall’alto della propria posizione di forza, la Lega Lombarda impone un patto alla Liga Veneta, con la costituzione ufficiale della Lega Nord. Confluiscono nel nuovo partito anche Piemont Autonomista, Union Ligure, Alleanza Toscana e Lega Emiliano-Romagnola. Dieci i soci fondatori: Umberto Bossi, Francesco Speroni, Gipo Farassino, Franco Rocchetta, Franco Castellazzi, Marilena Marin, Bruno Ravera, Carla Uccelli, Riccardo Fragassi e Giorgio Conca. Entro pochi anni gli ultimi sette entrano a far parte della lunghissima lista degli epurati.

L’U.P.V. continua invece ad intrattenere stretti rapporti con l’Union Valdôtaine. Tra l’altro, il raggiungimento del quorum con la lista Federalismo consente, grazie alla ripartizione del rimborso elettorale, un minimo di disponibilità di bilancio per le attività del movimento. Il 6-7 maggio 1990 hanno luogo le elezioni amministrative.

La Liga Veneta, per l’ultima volta col simbolo del leone marciano, presenta ovunque capolista per le regionali Franco Rocchetta o la moglie, tranne che nel difficile collegio rodigino, in quanto la legge ammette un massimo di tre candidature. L’effetto trainante della Lega Lombarda la porta a 170.000 voti e al  5,8%, con la conseguente elezione di tre consiglieri regionali ( i due coniugi ed il fedelissimo Giampaolo Gobbo, attuale segretario della Liga Veneta ed europarlamentare). L’Union del Popolo Veneto, con 58.000 voti e l’1,9% dei consensi, riesce a confermare Ettore Beggiato in Regione.

L.V. ed U.P.V., grazie alle alleanze già sperimentate alle europee, evitano comunque la pesante raccolta di firme che la nuova legge elettorale, approvata poco prima della consultazione, impone nel tentativo di limitare la proliferazione di liste autonome. Tale norma, in particolare, danneggia le numerose liste civiche apartitiche che nel Veneto avevano sempre avuto un certo seguito nelle elezioni per i comuni; esse, a programmi predisposti, si trovano tra capo e collo la necessità di triplicare le già tante sottoscrizioni indispensabili a presentarsi.

E qui si insinua l’ex sindaco dell’ex sindaco di  Venezia ed ex eurodeputato Mario Rigo. Sfruttando l’amicizia con l’onorevole Columbu del Partito Sardo d’Azione, riesce a farsi dare la delega da parte del segretario dei sardisti a firmare liste anche nel Veneto. Rigo si inventa, pertanto, Iniziativa Civica, proponendosi presso le varie liste del Veneto al fine di risolvere il problema delle raccolte delle firme; in cambio chiede che nei Comuni venga utilizzato lo stesso simbolo che campeggia per Provincie e Regione. A poco valgono le proteste dell’U.P.V. presso i sardisti, tese a ricordare come appena l’anno prima era stato sottoscritto un accordo elettorale, grazie al quale l’isolano Mario Melis era potuto entrare a Strasburgo.

L’affidabilità degli autonomisti sardi viene completamente annichilita quando, due anni dopo, Mario Melis si rifiuta di applicare l’alternanza, concordata nel 1989, e rimettere a Luciano Caveri dell’Union Valdôtaine il mandato da eurodeputato.

Iniziativa Civica, grazie a questo trucchetto, ottiene lo 0,9% in Regione, spedendo a Palazzo Ferro-Fini Silvano Ceccarelli. Questi, rispettando la tradizione, litiga abbastanza presto con Mario Rigo, dando vita al movimento Veneto Nostro, di cui non si sentì mai parlare.

U.P.V. e L.V. entrano in maniera incisiva nei consigli comunali (rispettivamente 26 e 41 amministratori) e provinciali (2 e 12), con una differenza sostanziale: la distribuzione a macchia di leopardo dei voti dell’Union del Popolo Veneto, cosa che denota un maggiore collegamento con l’elettorato rispetto alla Liga Veneta.

Misurata la consistenza dell’U.P.V., Umberto Bossi ordina ai coniugi Rocchetta di ricomporre il fronte veneto dell’autonomismo. Ne consegue che Marilena Marin propone ufficialmente alla controparte di confluire nella Liga Veneta, e quindi nella Lega Nord, ma la proposta è rifiutata. Viene a mancare anche un possibile accordo tra l’U.P.V e il M.V.R.A., a causa di personalismi e rancori tra i dirigenti dei due movimenti. Il M.R.V.A. a sua volta di divise in due micro-movimenti, con la nascita di Democrazia Autonoma Veneta di Umberto Fochesato.

Questa mancanza di umiltà, questa incapacità di anteporre gli ideali alla propria persona e questa assurda miopia politica sono e saranno negli anni il comune denominatore di qualsiasi esperienza politica autonomista in Veneto e sono da considerare la causa prima del fallimento di tutte le esperienze politiche in tal senso.

Ognuno continua così per la propria strada e nelle elezioni amministrative della primavera del 1991 l’U.P.V ottiene nel complesso più voti della Liga Veneta.

Questo risultato porta alcuni aderenti all’U.P.V. a considerare maturi i tempi per formulare tesi indipendentiste, e nel congresso tenuto in autunno, una mozione che intende dare una connotazione apertamente secessionista al movimento viene bocciata con pochi voti di scarto.

Tutte le attenzioni da quel momento vengono rivolte alle elezioni politiche del 1992.

L’U.P.V.  riesce a raccogliere le 3.500 firme necessarie per le candidature a Montecitorio, sia per la circoscrizione Venezia-Treviso che a Verona-Vicenza-Padova-Rovigo. Belluno, che ancora per qualche anno rimane aggregata a Pordenone e Udine, resta scoperta. Capilista, rispettivamente, l’avv. Andrea Arman (difensore dei Serenissimi alcuni anni dopo) e Piergiuliano Beltrame. Al Senato, tutte le provincie vengono  coperte; candidato di punta è il prof. Luigino Chemello.

Per la Lega Nord, Franco Rocchetta si assicura il posto da capolista nelle due circoscrizioni venete della Camera dei deputati, nonché alcuni collegi sicuri del Senato.

Il M.V.R.A. cambia nome in Veneto Autonomo, e la susseguente modifica del simbolo lo rende ancora più confondibile con quello dell’Union del Popolo Veneto. La conclusione anticipata, anche se solo di poche settimane, della decima legislatura, comporta l’automatica riduzione del 50% nel numero di firme necessarie a presentare le liste, facilitando la partecipazione del gruppo di Vecchiato.

Ma il colpo decisivo alle velleità dei venetisti lo sferra Mario Rigo. Come un cuneo, l’ex sindaco di Venezia si insinua nel rissoso pollaio dell’autonomismo, approfittando della cancellazione del simbolo della Liga Veneta dalle schede. Egli cambia spudoratamente la denominazione di Iniziativa Civica prima in Lega delle Liste Civiche per l’Autonomia del Veneto, ed infine in Lega Autonomia Veneta. Sfruttando la scarsa propensione della magistratura a perseguire chiunque possa portare via voti a Bossi, inserisce nel simbolo, un leone di San Marco, la parola “autonomia” convenientemente rimpicciolita, in modo che nei pochi centimetri quadrati di spazio occupati sulla scheda elettorale si leggesse, essenzialmente, la scritta “Lega Veneta”. Come immaginabile, i più che legittimi ricorsi della Lega Nord rimangono lettera morta. In questo scenario, dove la confusione regna sovrana, la campagna elettorale degli autonomisti non può che essere avvelenata.

Tutte le previsioni assegnano, nel nord d’Italia, un enorme consenso per Bossi, tanto che per la prima volta dal dopoguerra la Democrazia Cristiana evita di candidare nei collegi iper-sicuri del Veneto esponenti forestieri, dovendoli riservare a quei notabili locali che non potevano mancare l’elezione (come nel caso dell’ex presidente della Regione Carlo Bernini). E tali pronostici vengono puntualmente rispettati.

Il 5 aprile 1992 la Lega Nord sbarca furiosamente in parlamento, conquistando cinquantacinque deputati e venticinque senatori. Con quasi il 20% il consenso ottenuto nel Veneto comincia a riallinearsi alle percentuali lombarde. Franco Rocchetta viene investito da oltre 113.000 preferenze personali, e molti elettori scrivono sulla scheda il nome del senatùr, benché non candidato nel Veneto.

Umberto Bossi raccoglie preferenze anche per conto della Lega Autonomia Veneta, la quale, giocando sulla scopiazzatura di nomi e simboli, arraffa due posti in parlamento: Francesco Ronzani al Senato e, ovviamente, Mario Rigo alla Camera. Il giochetto attuato dell’ex sindaco di Venezia viene imitato nella confinante Lombardia: la Lega Alpina Lumbarda (con il termine “Alpina” rigorosamente in piccolo) riesce ad esprimere un senatore nel collegio di Clusone.

Veneto Autonomo e Union del Popolo Veneto, quasi appaiati attorno all’1,5% dei voti, rimangono entrambi al palo: questo comporta nei mesi successivi il travaso di militanti e consensi verso la Lega Nord oramai partito unico dell’area autonomista.

Il 13 dicembre 1992 si tengono le ultime elezioni comunali senza elezione diretta del sindaco e premio di maggioranza; ad una consistente presenza leghista fece da contraltare la totale assenza dei venetisti.

Un segno della forza che la Lega Nord stava conquistando fu l’elezione del primo sindaco leghista del Veneto: a capo dell’amministrazione comunale di Soave, cittadina di circa 6.000 abitanti in provincia di Verona, viene nominato il senatore Achille Ottaviani.

Un’episodio che sicuramente non si può dimenticare la civile protesta dell’on. Fabio Padovan della Lega Nord per l’ennesimo caso di invio al domicilio coatto di poco graditi ospiti, legati alla malavita organizzata meridionale. Il 18 Aprile del 1993 viene inviata a Codognè (Treviso)la presunta cammorista Anna Mazzo di Afragola. Dal quel giorno Fabio Padovan organizza continue manifestazioni di protesta, picchetti e ronde di sorveglianza davanti all’albergo dove risiede la Mazzo. La protesta monta e Padovan inizia uno sciopero della fame e della sete ad oltranza durante il quale rischia più volte il ricovero in ospedale. L’iniziativa ha un enorme successo e riempie le prime pagine di giornali e telegiornali tanto che Rocchetta, timoroso di perdere la leadership del movimento si affretta ad accodarsi a Padovan nelle proteste.

Ma alla fine lo sforzo enorme paga. Non solo la presunta mafiosa è costretta a tornarsene a casa, ma sull’onda delle proteste che si diffondono oramai in tutto il Veneto, viene cambiata anche la legge sul soggiorno obbligato (che tra l’altro fu uno strumento incredibile nelle mani della criminalità organizzata per arrivare con i suoi tentacoli anche in Veneto).

Alle elezioni amministrative del 7 dicembre 1993, illusa dal successo di Marco Formentini a Milano sei mesi prima, la Lega Nord manca la conquista di Venezia. Il filosofo Massimo Cacciari supera largamente il leghista Aldo Mariconda nella corsa a sindaco della capitale veneta. Nell’entroterra, tuttavia, diverse amministrazioni passano a guida leghista e la Lega Nord diviene di gran lunga il primo partito nel Veneto.

 L’ACCORDO CON FORZA ITALIA

I continui successi elettorali della Lega Nord non sembrano trovare ostacoli e nella primavera del 1993 i sondaggi danno il Carroccio sopra il 20% su scala nazionale. Nulla sembra poter fermare questa avanzata e la Lega appoggia i referendum per una nuova legge elettorale, su base maggioritaria, prevedendo di ottenere alle successive elezioni politiche la totalità o quasi dei collegi del Nord.

A rovinare le previsioni di Umberto Bossi ci pensa Silvio Berlusconi, imprenditore monopolista del settore radiotelevisivo, grande amico di Craxi e di tutta la classe politica corrotta spazzata via dalla Lega e da Tangentopoli, sul quale  pendono numerose inchieste giudiziarie per reati legati alla corruzione e alla malavita organizzata.

Berlusconi, grazie all’appoggio dei mass media di sua proprietà, riesce in pochi mesi a creare una struttura partitica pronta per le elezioni politiche anticipate dell’anno successivo.

Bossi decide di far buon viso a cattivo gioco e di allearsi con il suo nuovo concorrente politico.  Insieme a Pannella e al CCD viene data vita alla coalizione elettorale “Polo delle libertà”.

Alle elezioni politiche del 27 marzo 1994 è un trionfo per la coalizione, meno per il Carroccio.. In Veneto la Lega perde il primato a favore del suo nuovo ingombrante alleato, con 701.801 voti (21,6%) contro 767.266 voti (23,6).

Nonostante questo drastico ridimensionamento la Lega entra in parlamento con duecento parlamentari, grazie all’accordo al favorevole accordo preventivo sui collegi uninominali.

Non si ricandida Fabio Padovan: espulso dalla Lega Nord perché contrario al patto con Berlusconi, il 4 maggio fonda l’associazione Liberi Imprenditori Federalisti Europei.

L’U.P.V., rimane alla finestra alle elezioni politiche mentre la Lega Autonomia Veneta ottiene ben 104.083 voti (3,2%).

Alle Europee del 12 giugno dello stesso anno queste due formazioni si presentano assieme in un cartello con Union Valdôtaine, Slovenska Skupnost, Union Für Süd-Tirol, Union Furlane, Movimento Autonomista Occitano e Movimento Meridionale valdostani ma non raggiungono l’obiettivo minimo di un europarlamentare.

Chi entra nell’europarlamento è, invece, Marilena Marin, eletta nella circoscrizione nord-orientale assieme ad Umberto Bossi. Per la Lega Nord non è certo un successo: a livello “nazionale” scende infatti al 6,6%.

In autunno l’U.P.V. tiene l’ultimo suo congresso, ma il mancato raggiungimento del numero legale inficia qualunque decisione. Il consigliere comunale vicentino Enzo Trentin ne raccoglie i resti, organizzando due effimere apparizioni alle successive elezioni amministrative nel capoluogo berico.

Nel frattempo Dopo l’espulsione di Rocchetta e Marin (nel frattempo separatisi) dalla compagine bossiana, Ettore Beggiato confluisce nel gruppo consiliare regionale Lega Nord-Liga Veneta, al quale già avevano aderito l’ex rautiano Fabrizio Comencini e l’ex democristiano Delfino Buson.

Gli ex coniugi, allontanati dalla Lega Nord per le posizioni assunte in seguito al ribaltone contro il governo Berlusconi, tentano l’organizzazione di un nuovo movimento autonomista, la Liga Nathion Veneta. Tale sodalizio si presenta in occasione delle successive consultazioni amministrative comunali a Treviso. Le elezioni nel capoluogo della marca si rivelano un vero disastro, basti pensare all’unica preferenza personale conseguita dall’eurodeputata Marilena Marin!

Alle elezioni regionali del 23 aprile la Lega Nord ottiene il 17,4% nel Veneto. Vengono eletti Giampaolo Gobbo, Mariangelo Foggiato, Fabrizio Comencini, Alberto Poirè, Ettore Beggiato, Michele Munaretto, Franco Roccon, Alessio Morosini e Adriano Bertaso. Quest’ultimo viene presto espulso dalla Lega, e fonda l’Unione Nord Est.

La Lega Autonomia Veneta aveva proposto l’imprenditore Giorgio Panto a presidente della Regione. Nonostante la notevole profusione di mezzi finanziari, non viene eletto neppure semplice consigliere. Panto, che si era anche avvicinato per qualche tempo alla L.I.F.E  di Fabio Padovan,fonda Progetto Azzurro, da vita a Nuova Italia, e continua negli anni a venire ad interessarsi alla politica, anche se solo come libero pensatore.

Poco dopo, il 28 maggio 1995, Umberto Bossi annuncia la nascita del Parlamento del Nord che si insedia a Mantova la settimana successiva. L’escalation secessionista tocca l’apice dopo le elezioni politiche del 21 aprile 1996.

In tale occasione, contro ogni previsione, la Lega Nord risorge. Conquista un’ottantina di parlamentari, insufficienti tuttavia ad essere determinanti per le scelte di governo. In Veneto, il partito di Bossi consegue un insperato successo, con percentuali di consenso superiori alle altre regioni settentrionali.

Per il Veneto è una data storica perché la Liga supera il Carroccio lombardo in consensi superando il 30%. Treviso è la prima provincia leghista del Veneto con il 42%; Belluno le è di poco ditro (41,4), un po’ più staccata Vicenza. Il Carroccio assomiglia sempre più per dimensioni alla vecchia balena bianca, in 240 comuni èoltre il 40 per cento, nella Marca trevigiana ben 36 comuni oltrepassano il 50 per cento.

La Lega Autonomia Veneta, finalmente, toglie la maschera, apparentandosi con l’Ulivo riuscendo a mandare in parlamento Mario Rigo. L’Unione Nord Est, assolutamente assente dal territorio, se si eccettua la stampa di Tempo Veneto, tenta senza esito la scalata elettorale.

Il periodo post-elettorale vede un crescendo di iniziative padaniste, dall’insediamento del Comitato di Liberazione il 12 maggio al giuramento a Pontida del 2 giugno, dalla tre giorni indipendentista del 13-15 settembre al plebiscitario referendum per la secessione del nord il 25 maggio 1997. Sembra oramai che la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania (questo diventa il nuovo nome del partito) e soprattutto il suo incontrastato e carismatico leader Umberto Bossi abbiano scelto irreversibilmente per lo scontro frontale con “roma ladrona”. I sondaggi dicono che  esiste una forte minoranza del paese (quella che tra l’altro lavora per mantenerlo) che guarda con simpatia e approvazione alla nascita di un forte movimento di rottura del sistema partitocratrico. Secondo i sondaggi la maggioranza dei cittadini della Padania ritiene vantaggiosa dal punto di vista economico la secessione e la creazione di due realtà statuali distinte. Ma gli avversari da affrontare sono tantissimi. Oltre alla totalità dei partiti italiani la Lega Nord si trova a combattere con tutte le organizzazioni che traggono profitto dalla situazione di corruzione e clientelismo in cui si trova il paese: confidustria, i sindacati, la Chiesa(fatta eccezione per alcuni parroci  e qualche vescovo che più o meno clandestinamente dimostrano simpatie per le rivendicazioni popolari di libertà dei popoli della Padania), gli apparati burocratici  si ritrovano uniti a difendere il sistema italiano e le sue ingiustizie.

Ma se all’esterno la lega Nord può sembrare una struttura monolitica, in realtà all’interno le cose stavano molto diversamente.

Da subito iniziano le battaglie tra chi non crede alla possibilità di arrivare alla secessione (e probabilmente nemmeno la desidera) e propende quindi ad ottenere una qualche forma di accordo con roma e chi vuole arrivare allo scontro frontale con le istituzioni. Alla prima corrente appartiene  la quasi totalità della classe dirigenziale Veneta, alla seconda la maggioranza della militanza.

In Veneto il discorso si fa più complicato per la presenza di una forte corrente nazionalista veneta che mal vede la situazione di strapotere lombardo all’interno della struttura leghista  (a dire il vero dovuto anche alle scarse capacità dei dirigenti veneti) ma che a sua volta è divisa tra moderati disponibili ad arrivare alla trattativa col potere centrale e indipendentisti che auspicano la creazione di una struttura di lotta di contrapposizione dura.

La battaglia interna viene condotta da una parte e dall’altra a forza di espulsioni e di boicottaggi con un livello di violenza verbale che più volte sfiora quella fisica. Esistono di fatto almeno due leghe, che lavoravano per obiettivi diversi e  spesso una contro l’altra, i cui appartenenti vengono definiti “comencianiani” e “bossiani”. Di fatto la struttura verticistica della lega da però alla corrente “comenciniana” un forte potere e controllo sulla struttura, per questo i “bossiani” cominciano ad organizzarsi in proprio con l’appoggio del segretario federale Umberto Bossi in strutture, quali ad esempio la Guardia Nazionale padana, tendenti a controllare e a fare pressioni sugli avversari.

Da una costola dei “bossiani” nasce a questo punto anche il Movimento Indipendentista Padano, creato nel ’96 da alcuni leghisti della provincia trevigiana,  che per primi dichiararono il fallimento della politica indipendentista della lega e condussero campagna per il non voto. Fu una esperienza di breve durata che fallì probabilmente proprio perché troppo precoce.

LA LIBERAZIONE DEL CAMPANILE

All’inizio del 1996, giunge alle forze dell’ordine una lettera firmata da un sedicènte “Veneto Serenissimo Governo”, con la quale si annuncia l’inizio di trasmissioni radiofoniche “per l’indipendenza del popolo Veneto”. Nonostante monitoraggi assidui sull’annunciata onda media di 1475 kHz, tali programmi non vengono segnalati neppure dai radioamatori.

Qualche tempo dopo, tra lo stupore generale, il cosiddetto Veneto Serenissimo Governo prende di mira la televisione di stato: il 17 marzo 1997 una voce si inserisce sulla portante audio del TG1 delle 20, diffondendo un quarto d’ora di proclami indipendentisti in lingua veneta. Testo del messaggio Tutti gli organi di informazione dedicano le prime pagine a questo avvenimento, censurando rigorosamente il testo del messaggio letto dall’esponente del V.S.G., captato peraltro chiaramente in tutto il centro storico di Venezia. Nelle settimane successive la RAI subisce nuove “sovrapposizioni”, sempre in località diverse: risulta evidente come i disturbatori utilizzino apparati portatili o pilotabili a distanza. Del caso, competenza della Polizia Postale, vengon investite anche le altre forze dell’ordine ed i servizi di sicurezza; viene addirittura messo a disposizione per le indagini, 24 ore al giorno, un elicottero. Cominciano a circolare anche le prime indiscrezioni sul testo dei messaggi diffusi via etere: per il 12 maggio 1997 viene annunciata una manifestazione dimostrativa in Piazza San Marco, che richiede la massima partecipazione da parte del popolo veneto.

In realtà, l’unico raduno previsto per l’occasione è quello organizzato dalla Lega Nord, che domenica 11 maggio desidera ricordare degnamente il bicentenario dalla caduta della Serenissima; ma non è a questo che i messaggi televisivi si riferiscono.

La Veneta Serenissima Armata si muove  durante la notte tra l’8 e il 9 Maggio 1997: Fausto Faccia, Antonio Barison, Christian Contin, Andrea Viviani, Moreno Menini, Luca Peroni, Flavio Contin e Gilberto Buson (fratello dell’ex consigliere regionale leghista Delfino), ormai individuati dalle forze dell’ordine e pertanto costretti ad anticipare di tre giorni la loro impresa, molestano un nervo scoperto, ottenendo in un sol giorno più risultati che vent’anni di autonomismo veneto (del quale sono, tuttavia, figli). Questa data segna nella storia del Veneto un punto importante perché rende evidente quali siano i valori e i criteri di giudizio di chi controlla l’apparato statale italiano: il sistema getta finalmente la maschera.

La reazione del potere beffato ed inferocito è infatti scomposta. Esso blatera di terrorismo, prospettando ergastoli ed altre punizioni spaventose, ripristina immediatamente un decreto di epoca fascista (senza nessun pudore da parte del comunista ministro degli interni Napolitano) che proibisce l’esposizione della bandiera veneta, aizza i suoi pennivendoli contro “questa congrega di ubriaconi fanatici degni rappresentanti degli egoismi degli italiani residenti nella regione veneta”. Queste reazioni ottengono risultati opposti a quelli desiderati.

I sondaggi di opinione fin da subito attribuirono ai Serenissimi sentimenti di benevolenza, quando non di aperta condivisione, in gran parte del popolo veneto: ben l’80% dei Veneti  considera gli “Otto del Campanile” “Patrioti Veneti”. Fioriscono le iniziative in loro favore, prima fra tutte quella nata all’interno del gruppo dirigente della  L.I.F.E., che promuove assieme ad altre persone la creazione del Comitato per gli Otto di San Marco con lo scopo di sostenere moralmente ed economicamente i patrioti e le loro famiglie. Nonostante le richieste di parenti ed avvocati della difesa, gli otto “terroristi” vengono tenuti in carcere fuori dal Veneto. Per queste attività di solidarietà varie membri del comitato subiranno vere e proprie persecuzioni giudiziarie, dimostrando ancor di più quanto stava dando fastidio alle autorità occupanti l’avvenimento.

Ma da dove provengono gli otto del campanile?

Si tratta in parte di gente che aveva frequentato gli ambienti lighisti fino ai  primi ani ottanta per poi muoversi in maniera autonoma arrivando  nel 1987 a fondare clandestinamente clandestinamente il Vento Serenissimo. Governo. Le prime attività operative del gruppo si limitano nei primi anni ad attività di volantinaggio e alla distribuzione di adesivi in tutto il veneto.  Dal 1992 cominciano ad essere messi in cantiere progetti più pericolosi, con l’obiettivo di catalizzare l’opinione pubblica attraverso azioni simboliche.

Nasce il PERL, il PIANO DI EMERGENZA PER IL RISVEGLIO DEL LEONE.

Questo documento individua nelle forze d’occupazione italiane il nemico numero uno, gli obiettivi primari vengono identificati con le caserme, le basi e le istituzioni militari italiane e della NATO. Viene costruito un prototipo di mini carroarmato radiocomandato (Veneto Tanko Distruttore) e vengono preparati i piani per usarne in larga scala imbottiti di esplosivi contro le strutture militari degli occupanti.

Negli anni a venire l’opzione di uso della violenza viene scartata, per la preoccupazione che eventi violenti facessero mancare il necessario appoggio popolare dell’insurrezione.

Come risulta dai verbali del VSG vengono quindi scartate azioni di tipo terroristico e viene invece deciso di procedere con la trasmissione via etere di messaggi incitanti alla rivolta, ritenendo indispensabile arrivare direttamente alle coscienze della gente, senza intermendiari massmediatici.

Si pensa inoltre ad una azione dimostrativa e spettacolare per ricordare i duecento anni dalla caduta della Serenissima.

Vengono prese in esame varie idee, dalla distribuzione di volantini con un elicottero in piazza San Marco all’occupazione armata del Palazzo Ducale (antica sede del governo veneziano). Alla fine si opta per la liberazione del campanile di San Marco, ritenuto un obiettivo più facilmente difendibile.

L’EFFETTO DELLA LIBERAZIONE DEL CAMPANILE ALL’INTERNO DELLA LEGA NORD

Umberto Bossi, scavalcato sui temi dell’indipendentismo, parla di coinvolgimenti dei servizi segreti nell’assalto a Piazza San Marco, prendendo le distanze dall’avvenimento. La Lega Nord veneta sospende la manifestazione prevista per l’11 maggio e, per bocca del segretario Fabrizio Comencini, esprime dichiarazioni in linea con quelle del senatùr. Si dissocia subito dalla linea ufficiale Ettore Beggiato. Ma la reazione della base leghista non si fa attendere: nonostante le minacce di espulsioni vari gruppi di militanti si organizzano più o meno clandestinamente per aiutare le famiglie dei carcerati. Bossi e Comencini, entrambi preoccupati di non perdere la base leghista sono costretti così, loro malgrado, a  cavalcare loro malgrado gli avvenimenti.  Nei giorni successivi, anche la Lega Nord comincia a raccogliere fondi per le famiglie dei Serenissimi, ed il senatore Luciano Gasperini assume la difesa di alcuni di loro. Alla prima seduta del processo per direttissima, nell’aula bunker di Mestre, ai molti, leghisti e non, presenti per testimoniare il proprio appoggio morale, fanno compagnia gli autonomi dei centri sociali, che a dispetto del “pacifismo”, aggrediscono brutalmente Fabio Padovan e Franco Rocchetta, provocando la carica della polizia.

Al termine del processo, “in nome del popolo italiano” i Serenissimi vengono condannati a pene variabili tra i 4 anni e 9 mesi ed i 6 anni. L’identificazione tra il popolo veneto, che aveva manifestato la propria simpatia per il gesto degli otto del campanile, e quel “popolo italiano” in nome del quale l’assalto a Piazza San Marco viene così duramente punito, non è mai stata messa in discussione in maniera tanto manifesta ed irreversibile come in occasione di quella sentenza.

Il 25 Maggio dello stesso mese la Lega nord tiene in Veneto e in tutta la Padania un referendum autogestito, proponendo  ai cittadini  la  creazione di una Repubblica Federale Padana indipendente da roma. Le fonti del partito indicano in almeno 5 milioni i votanti, probabilmente furono poco più della metà di cui almeno 700.000 in Veneto.

La partecipazione è comunque enorme e  trasversale alle forze politiche e moltissimi sono i non leghisti che si recano alle urne,documento alla mano, nonostante le intimazioni e le minacce delle forze di occupazione militare italiane.

L’eco dell’azione del 9 maggio risuona anche nelle elezioni per il parlamento padano del 26 ottobre 1997. I leghisti veneti si impegnano a fondo nella consultazione  e dai gazebo della regione affiora anche la divisione tra le varie correnti: la lista dei Leoni Padani e la lista Il Campanile sono   espressione diretta della dirigenza nazionale, un test importante per definire i rapporti di forza tra le varie correnti all’interno del partito.

Il gruppo in Consiglio Regionale, che si va sempre più sottraendo al controllo di Umberto Bossi, presenta diverse proposte di legge in senso venetista confidando, neppure tanto velatamente, nell’assenso del presidente della Regione, Giancarlo Galan. Quest’ultimo, non manca di cavalcare da buon politico il malumore dei cittadini. Un esempio per tutti: in occasione dell’inaugurazione di Piazza Ferretto a Mestre l’esponente di Forza Italia invita apertamente Scalfaro, presente per ribadire la presenza dello Stato e della sua unitarietà, in una discutibile coreografia di bambini delle elementari sventolanti bandierine tricolori, a starsene a casa propria. A rovinare del tutto la festa a Scalfaro ci pensano poi i militanti della LIFE che irrompono nella piazza con le odiatissime (dall’ex presidente) bandiere di San Marco.

Alcune amministrazioni leghiste si muovono per usare le strutture comunali per combattere alcune battaglie contro lo stato italiano, con l’istituzione di corsie preferenziali per i residenti nell’assegnamento dei posti e degli alloggi pubblici, con l’installazione di cartelli ufficiali all’entrata dei territori comunali che ne indicano l’appartenenza al Veneto o alla Padania, con l’intitolazione di vie e piazze a personaggi o a nomi quali Viale Padania, Piazza Serenissima, ecc per indicare anche nella toponomastica un cambiamento radicale.

Uno di questi sindaci, il sindaco di Jesolo Renato Martin , si muove con più decisione di altri in tal senso e diviene presto il punto di riferimento per gli indipendentisti padani contrapposti alla dirigenza veneta della Liga Veneta-Lega Nord.

In particolare l’amministrazione comunale di Jesolo organizza sul territorio comunale durante il periodo estivo (tra le polemiche sui mass media e senza nessun appoggio dal partito che cerca di danneggiare più volte l’iniziativa)  un servizio di sorveglianza con centinaia di volontari provenienti da tutto il Veneto e da tutta la Padania riuniti nella Guardia Nazionale Padana con compiti ufficiali di informazione ma soprattutto di controllo del territorio: è la sfida al monopolio della Sicurezza, una sfida a viso aperto allo Stato italiano.

Da contraltare c’è però la maggioranza dei sindaci eletti nelle liste leghiste nel Veneto che per mancanza di coraggio o di ideali si rifiutano  di usare le amministrazioni locali per far risaltare le contraddizioni del sistema ma si limitano nel migliore dei casi a fare buona amministrazione.

Sempre più il Veneto, fucina di insofferenza al potere centrale, ribolle: finte bombe con proclami irredentisti vengono depositati davanti gli ingressi delle caserme dei carabinieri in alcune località minori; compaiono nuove sigle più o meno fantasiose di gruppi armati (tra le quali citiamo il FAL, Fronte Armato di Liberazione), i piccoli imprenditori della L.I.F.E. cominciano a sfidare apertamente l’ossessiva invadenza della polizia fiscale arrivando più e più volte a mettere in discussione fisicamente l’autorità delle forze di polizia italiane; nel corso della protesta contro le quote-latte gli allevatori lordano di liquami le forze dell’ordine, suscitando tra i veneti sentimenti opposti allo sgomento palesato dai politici romani. In un rigurgito di nazionalismo, il parlamento impone l’esposizione del tricolore; la risposta del Consiglio regionale non si fa attendere: il 10 aprile 1998 viene approvata la legge che disciplina l’esposizione della bandiera veneta, attribuendole pari dignità rispetto al vessillo statuale. Le intenzioni del legislatore italiano ottengono l’effetto opposto: tutti gli edifici ad uso pubblico, scuole comprese, sono costrette da quel momento esibire il vessillo marciano ammainato nel 1797 dalle truppe napoleoniche.

Ma la bomba scoppia neanche quindici giorni dopo, con l’approvazione della risoluzione n° 42. Il Consiglio Regionale, con richiami precisi e puntuali alla Costituzione repubblicana, all’atto di Helsinki, alla Dichiarazione di Algeri, invoca il diritto del popolo veneto a pronunciarsi, tramite referendum, sulla propria autodeterminazione. La risoluzione, approvata il 22 aprile 1998 con 29 voti a favore (tra cui quello del presidente Giancarlo Galan) e 24 contrari, provoca reazioni scomposte a Roma, in particolare a Montecitorio, dove la determinazione del parlamento veneto viene spacciata per demenza. Il filosofo sindaco di Venezia Massimo Cacciari, che da alcuni mesi ondeggia tra l’Ulivo ed il Movimento del Nord Est da lui creato assieme all’industriale Mario Carraro, ne sminuisce l’importanza. Umberto Bossi, da Mosca (dove era andato a cercare l’appoggio del leader nazionalista russo Zhirinoski) sconfessa l’operato del gruppo leghista regionale provocando le dimissioni, poi ritirate, del segretario Fabrizio Comencini.

Nei primi di Settembre  del 1998 Bossi raduna a Ponte di Legno i maggiori dirigenti della Lega Nord: da poco ha lanciato l’idea del Blocco padano, cioè l’idea che la Lega Nord da sola non basta e che bisogna dare via a nuovi partiti e movimenti che siano in grado di  incanalare altro consenso verso le idee autonomiste: in teoria anche una buona idea, se non fosse per il particolare che le nuove realtà devono restare in una  maniera o nell’altra legate alla struttura della lega. Ma nella riunione di ponte Di Legno Bossi parla soprattutto di Padania e annuncia ai dirigenti che occorrono nuove vie per arrivare all’obiettivo dell’indipendenza. In pratica  tra le righe Umberto Bossi ammette implicitamente il fallimento del progetto Padania e la possibilità che si torni al dialogo con roma.

La resa dei conti nella Liga Veneta  è ormai indifferibile.

LA RESA DEI CONTI

Leader e punto di riferimento per la corrente padana ed indipendentista diviene il sindaco di Jesolo renato Martin, che in collaborazione con le strutture della Guardia Nazionale Padana escogitarono lo stratagemma dell’”autodeclassamento”, per lanciare un forte segnale alla Segreteria Federale, evidenziando il malcontento montante nei confronti della Segreteria Nazionale veneta guidata dal Segretario Comencini. “Stratagemma”, in quanto lo Statuto della Lega Nord prevede, tuttora, il declassamento da militante a sostenitore, ma non l’autodeclassamento: questo fu utilizzato come strumento per porre una sorta di “sfiducia” alla dirigenza veneta, che tolto il sostegno della base, delle tessere, teoricamente sarebbe dovuta essere commissariata

L’iniziativa ha successo e ottiene lo scopo prefissato, rendendo pubblica l’esistenza della frattura all’interno della lega senza dare la possibilità di dare il via a nuove espulsioni. In pochi giorni la rottura, che di fatto ripetiamo esisteva già, si rivela nella sua enormità.

Nei giorni tra la riunione di Ponte di Legno e domenica 13 Settembre, anniversario della Dichiarazione Di Indipendenza Della Padania che vede per l’ultima volta tutti assieme i leghisti a Venezia, alcuni amministratori leghisti (il presidente della provincia di Verona Borghesi, il sindaco di Isola della Scala  Massimo Brugnettini e di Bovolone Luigi Lovato, due comuni sempre del veronese) dichiararano la loro intenzione di dedicarsi esclusivamente all’amministrazione della cosa pubblica, senza la possibilità di interferenze politiche, in diretta contrapposizione con le direttive del partito che impongono esattamente il contrario.

In aggiunta il sindaco di San Bonifacio, Silvano Polo, presenta un dossier dove di denuncia la progressiva colonizzazione della Lega Lombarda sulla Liga Veneta, a partire dalla simbologia.

Bossi para il colpo facendo eleggere durante il raduno lagunare alla carica di Presidente del Governo Provvisorio della Padania la presidente della provincia di Vicenza Manuela Dal Lago.

Il 14 Settembre, il giorno dopo Venezia, alle 11 di mattina all’Hotel Sheraton di Padova la corrente padanista, capitanata dal suo leader il sindaco di Jesolo Renato Martin convoca una conferenza stampa in cui denuncia le manovre della corrente avversa e la necessità di arrivare ad un ricambio della classe dirigente.

Dopo qualche ora durante un consiglio federale a Milano Bossi accusa la classe dirigente nazionale di incapacità e convoca un congresso nazionale del Veneto.

Mercoledì 16 Fabrizio Comencini si presenta dimissionario al Consiglio Nazionale, ma viene superato il giorno dopo da una riunione straordinaria del Cosiglio Federale che decreta il commissariamento per l’intero Consiglio Nazionale e la nomina di Commissario Nazionale per il vicentino  Stefani Stefani, già presidente federale, , stabilendo altresì che il Congresso Nazionale già convocato venga preceduto dal Congresso Federale a Brescia.

Il 19 Settembre a una riunione informale dei consiglieri regionali della liga (unico assente Giampaolo Gobbo) a Laon (Belluno) viene decisa la convocazione ufficiale del Consiglio Nazionale per il giorno 22 a Noale (sede obbligata perché a tempo di record le serrature della sede nazionale erano state cambiate).

A Noale si ritrovano oltre a tutti i consiglieri regionali (eccetto Giampaolo Gobbo) anche quattro parlamentari: Franca Gambato, Antonio Serena, Donato Manfroi e Stefano Signorini.

Contemporaneamente i dirigenti fedeli a Bossi, si ritrovarono presso la sede nazionale a Padova.

La rottura porta al caos nelle sezioni: i militati sono costretti a scegliere, e per tanti si tratta di una scelta difficile e sofferta.

I bossiani accusano  i fuoriusciti di voler fare alleanze con il Polo delle Libertà e di usare l’indipendentismo veneto solo come facciata (cose rivelatesi a posteriori indiscutibilmente vere), i fuoriusciti accusano la lega di essere una struttura non democratica e centralistica, poco attenta se non ostile alle specificità dei Veneti        (anche queste obiezioni sono difficilmente discutibili).

Si tenta comunque una riconciliazione fino all’ultimo ma il 4 ottobre 1998 si tengono in contemporanea due congressi: a San Martino di Lupari (Verona) si tiene il congresso di fondazione della Liga Veneta Repubblica mentre a Bassano del Grappa si tiene il congresso della Lega Nord-Liga Veneta: la simultaneità dei congressi non lascia spazio a tentennamenti, o di qua o di là. I rapporti di forza sono momentaneamente attorno al rapporto di 4 a 1 a favore della Lega Nord ma più passa il tempo più questo divario aumenta, grazie soprattutto al carisma di Bossi.

In entrambi i congressi risaltano subito le differenze che esistevano gia nella Lega Nord.

A Campo San martino è guerra latente tra Fabrizio Comencini, che si fa portatore di un’idea moderata e più che possibilista su accordi con partiti italiani, e dall’altra parte Mariangelo Foggiato, ex segretario provinciale della Lega a Treviso, che propone una linea più movimentista e indipendentista: si arriva ad una tregua con la nomina del primo a Segretario Nazionale e del secondo a Presidente.

Al congresso di Bassano si assiste ad un’altra resa dei conti. Renato Martin sembra il naturale successore di Comencini, ma al congresso i probiviri gli impediscono di candidarsi in quanto autodeclassato e quindi senza i diritti di socio militante.

Le urne vengono cos’ aperte con la presenza di due soli candidati ufficiali: Giampaolo Gobbo, unico consigliere regionale rimasto in lega , che alcuni accusano di doppiogiochismo per aver taciuto sui preparativi del gruppo di Comencini, e Alberto Lembo, deputato veronese politicamente proveniente dall’estrema destra.

A seguito delle proteste del pubblico e dei militanti viene deciso dopo sei ore di discussione di accettare anche la candidatura del sindaco di Jesolo: ma ormai  la gran parte dei militanti ha già espresso il  voto e la richiesta di azzerare le votazioni dello stesso Martin viene rifiutata.

A questo punto entra in gioco il segretario federale Umberto Bossi. In un discorso infuocato dichiara non valido il diritto di voto per gli autodeclassati e invita  ad appoggiare Gianpaolo Gobbo come segretario provvisorio, adducendo poi giustificazioni circa la necessità di evitare estremismi per ricompattare il movimento. Giampolo Gobbo viene così eletto nuovo segretario nazionale.

Il venir meno dell’appoggio del segretario federale alla corrente indipendentista e al suo leader Renato Martin provocherà nei mesi successivi una profonda spaccatura nella stessa, tra chi deciderà di continuare la battaglia interna e chi deciderà di provare a continuare la lotta dall’esterno.

CONTINUANO LE DIVISIONI

Pochi mesi prima della rottura in casa leghista, i Serenissimi ottengono la concessione degli arresti domiciliari. Alcuni di loro si avvicinano alla Lega Nord e, poi, alla L.V.R. Altri, capitanati da Fausto Faccia e successivamente rimessi in carcere con una discutibilissima decisione della magistratura, continuano l’attività del Veneto Serenissimo Governo. Il V.S.G. fin da subito prese polemicamente le distanze dalla Liga Veneta Repubblica, invocando una supposta investitura morale a rappresentare il popolo veneto, sulla base dell’azione del 9 maggio 1997. A nulla vale la rottura del gruppo di Comencini con la Lega Nord, ed il fatto che il più lungo e caloroso applauso tributato dal congresso costituente di San Martino di Lupari fosse stato diretto proprio a loro. Il Veneto Serenissimo Governo, fermo sulla richiesta di ripetere il referendum del 1866 (senza però chiarire come arrivare a tale consultazione), non ha mai riconosciuto alcuna legittimazione alla Liga Veneta Repubblica.

Qualche risultato in più in tal senso sembra poterlo ottenere  Fabio Padovan della L.I.F.E., attore della Marcia per la libertà, una camminata iniziata il 1° Febbraio 1999 e conclusasi il 13 marzo lungo le strade del Veneto nel corso della quale registra la solidarietà di esponenti del clero, nonché l’adesione di alcuni sindaci alla sua proposta di destinare, con decisione unilaterale, una parte dell’Irpef direttamente ai comuni. Nonostante le dichiarazioni di principio, tutto ciò è finora rimasto rimasto lettera morta.

Nella primavera del 1999 vi sono anche tre turni elettorali, che forniscono esiti contraddittori.

Alle elezioni supplettive per il Senato nel collegio Treviso-Castelfranco, resesi necessarie a causa della morte di Michele Amorena, la Lega Nord vince superando il 30%, ed un buon risultato lo ottengono sia la Liga Veneta Repubblica sia Veneto Nord-Est (assieme, i tre gruppi che in qualche modo si rifanno a tesi anticentralistiche sfiorano il 50% dei consensi).

Alle elezioni europee, invece, la Lega Nord subisce un generalizzato e notevole calo di consensi, ottenendo un solo seggio a Strasburgo nel collegio nordorientale. Male anche la Liga Repubblica Veneta, alleata all’Union Für Südtirol ed altri movimenti autonomisti, che non supera il 3,5% su base regionale e manca per poco più di 30.000 voti il quorum. Peggio ancora Veneto Nord-Est: per il movimento di Mario Rigo, orfano di Cacciari e degli autonomi dei centri sociali passati all’”asinello”, solo un misero 0,2% nonostante l’alleanza con i consumatori ed i sardisti.

Alle consultazioni amministrative parziali, peraltro, non mancano soddisfazioni: sia per la Lega Nord, che conferma diversi sindaci, sia per la L.V.R. che ne ottiene tre (Chiuppano, Fregona e Spresiano).

A seguito della sconfitta alle elezioni europee assistiamo a nuove divisioni.

Dalla Lega Nord esce un gruppo capitanato da Giuseppe Ceccato sindaco di Montecchio Maggiore  che fonda il movimento Veneto Futuro.

Nelle settimane successive il consigliere regionale Mariangelo Foggiato ed il senatore Antonio Serena lasciano polemicamente la L.R.V., ufficialmente in quanto contrari a qualunque accordo con Forza Italia Veneto, secondo alcuni grazie ad una allettante offerta di posti della lega Nord. Comunque nel frattempo Foggiato fonda il movimento Liga dei Veneti.

Intanto la Liga Repubblica Veneta, la quale con il congresso del 16-17 ottobre 1999 ha cambiato denominazione in Veneti d’Europa, sigla  con Forza Italia Veneto, rappresentata da Giancarlo Galan (presidente in carica della Regione e candidato ufficiale del polo alla rielezione) un documento di intesa programmatica per le regionali del 2000.

A Ottobre del 1999 i militanti della lega Nord che gravitano attorno a Martin si riuniscono in provincia di Treviso per la fondazione di Veneto Repubblica Federale Padana,con la partecipazione di circa 300 persone.

Siamo in un momento particolare per la Lega Nord, cominciano ad arrivare dalla Lombardia le voci su un possibile accordo con i partiti italiani di centro-destra già firmato dal segretario federale: l’organizzazione di una manifestazione federale nella capitale italiana Roma per il 5 Dicembre dello stesso anno  sembra smentire tutto questo, ma in realtà è solo questione di giorni. A fine dicembre quello che per molti sembra solo  un incubo si avvera. L’accordo con il polo delle libertà è realtà e sarà operativo da subito.

I punti fondamentali dell’accordo sono due: devoluzione di poteri verso le regioni e blocco dell’immigrazione clandestina.

La quasi totalità dei militanti accetta con la morte nel cuore gli accordi con i partiti italiani di centro-destra, più per fede nel proprio capo che per fede negli accordi programmatici.

Nel frattempo gli altri autonomisti si organizzano.

I Veneti D’Europa sono orfani dell’accordo che pure avevano sottoscritto con Galan: accusano quest’ultimo di tradimento ma è evidente che ancora una volta gli accordi scritti in politica non contano niente se non sono supportati dai numeri per farli rispettare.

Il soggetto nuovo della politica veneta è il Fronte Marco Polo nato per iniziativa di Fabio Padovan e di alcune decine di attivisti della LIFE e dei COBAS del latte: Padovan con queste discesa nell’arena della politica rischia tutto il lavoro degli ultimi 5 anni e tutta la credibilità conquistata sul campo.

A Gennaio cominciano le consultazioni con le altre formazioni  già organizzate:Veneto Repubblica Federale Padana e Liga dei Veneti. I due gruppi si mostrano da subito incompatibili a causa delle lotte passate che li avevano visti combattere per la supremazia in Lega.

Alla fine l’accordo non si farà: Veneto Repubblica Federale Padana decide che non ci sono le condizioni favorevoli per ottenere un qualche tipo di risultato e decide di astenersi dal voto ma tiene comunque un buon rapporto con il F.M.P; la  Liga dei Veneti è costretta suo malgrado a non presentarsi, non avendo le firme necessarie per la presentazione. Alcuni militanti della LIFE delle zone di Verona e Vicenza in contrasto con Padovan nella scelta delle alleanze danno vita ai Leoni Veneti continuando in proprio l’attività di protesta fiscale tipica della LIFE.

Le regionali che vedono così gli autonomisti presentare ben tre liste diverse, segnano un ulteriore calo dei voti per tutta l’area.

Vince la Casa delle Libertà, ma per la Lega Nord è una sconfitta. Nel 97 era da sola il primo polo del Veneto, appena 3 anni dopo è ridotta al 13% dei voti e riesce a confermare 8 consiglieri regionali solo grazie al premio di maggioranza ottenuto grazie all’alleanza. La Lega Nord ottiene inoltre anche alcuni assessorati, tra i quali l’assessorato alla Cultura. Identità Veneta e Istruzione con Ermanno Serrajotto che inizia subito un buon lavoro per poter applicare finalmente parte del programma storico della Liga.

I Veneti D’Europa ottengono il 2,9% e in Fronte Marco Polo l’1.8%, numeri insufficienti per ottenere rappresentati istituzionali.

Queste sconfitte portano a una crisi profonda i piccoli e fragili movimenti che nell’inverno successivo si accordano  in vista delle elezioni politiche di primavera.

LA METEORA HAIDER

Nel frattempo piomba in Veneto e in italia la meteora Jorg Haider.Il leader della destra liberale austriaca già governatore della Carinzia vince infatti le elezioni politiche nel suo paese ed entra a far parte del governo insieme con i Popolari. In tutta Europa la sinistra insorge e chiede ed ottiene misure di boicottaggio contro il leader del FPOE. Haider sembra completamente isolato ma con un gesto polemico ma indovinato il sindaco di Jesolo Renato Martin lo invita in città e gli consegna le chiavi della città. Jesolo balza così nelle prime pagine nazionali dei giornali e diviene motivo di discussione in parlamento. Il tabù è così violato l e altri sindaci del Veneto e del Friuli si affrettano a rendere pubbliche le loro simpatie per i Liberali austriaci. Tra questi anche il sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini che definisce  Haider “un suo allievo”. Questo gesto lo trova isolato come già era successo altre volte dalla dirigenza del suo partito: Bossi, che un paio di anni addietro aveva firmato con Haider un protocollo di intenti, fa marcia indietro e definisce Haider “nazista figlio di nazisti”. In realtà nonostante queste pesantissime accuse la Lega Nord continua ad intrattenere rapporti con l’FPOE (a luglio si incontrano i responsabili giovanili dei due movimenti prima in Carinzia e poi a Milano) ed anche la base leghista si organizza autonomamente per allacciare rapporti più o meno stretti con gli austriaci.

Grazie a questo gesto VRFP sembra poter divenire il nuovo contenitore dell’indipendentismo padano in Veneto. Nel dicembre dello stesso anno infatti Haider torna a Jesolo e sottoscrive un patto di amicizia e di collaborazione tra i due movimenti  riconoscendo la Padania come realtà esistente e ponendo le basi per una alleanza dei detrattori del superstato europeo. In realtà nei mesi a seguire nonostante le buone intenzioni i punti dell’accordo rimangono in gran parte lettera morta.

LE ELEZIONI POLITICHE DEL 2001: LA LEGA DI NUOVO NEL GOVERNO CENTRALE

Il 13 di maggio si svolgono le elezioni politiche che vedono un’ulteriore calo della lega Nord che si attesta attorno al 10% a livello regionale e che a livello nazionale per poche migliaia di voti non arriva a superare lo sbarramento del 4%,e un contraddittorio risultato per la Liga Fronte Veneto (il cartello elettorale formato dal Fronte Marco Polo e dai Veneti D’Europa. Se in alcuni collegi il risultato infatti è a due cifre, in particolare nelle province di Vicenza e Treviso,in altre aree come il veneziano e il veronese i risultati sono largamente inferiori alla risultante delle somma dei voti dei due partiti.

Nessuno dei candidati viene eletto, ci va molto vicino Giuseppe Segato che viene candidato in stato di detenzione nelle carceri italiane per non aver rinnegato i fatti del Campanile.

Si presenta alle elezioni anche la lista Va Pensierolista promossa dalla Lega Nord per creare disturbo proprio alla L.F.V. : le poche migliaia di voti che le vengono attribuiti sono sufficienti per raggiungere lo scopo.

Non si presentano alle elezioni ne La Liga Dei Veneti (che nel frattempo ha cambiato nome in Alpi Adria con un programma praticamente identico a quello di V.R.F.P ma senza avere alcun legami internazionali) ne proprio V.R.F.P. che non riconosce le elezioni politiche italiane come attinenti al suo programma. Entrambi questi partiti sarebbero stati  comunque di dimensioni troppo piccole per poter influire in qualsiasi modo sulle elezioni.

La lega nonostante il calo elettorale ottiene un discreto numero di parlamentari ed entra nella compagine di governo con tre ministeri: Umberto Bossi alle riforme, Roberto Castelli alla Giustizia, Roberto Maroni al Welfare. L’obiettivo è ottenere la devoluzione di alcuni poteri verso le regioni e una legge sull’immigrazione che freni l’invasione di clandestini.

Nel frattempo il F.M.P. e la L.V.R. dopo i magri risultati elettorali decidono di fondersi dando vita ad una unica struttura nella speranza di poter rappresentare una valida alternativa alla Liga Veneta. In realtà la crisi che attanaglia l’area autonomista in Veneto non risparmia nessuno, con continue defezioni di militanti e sostenitori.

Nel novembre 2001 va segnalata la comparsa del Comitato Spontaneo per l’Europa Dei Popoli che invita tramite una campagna pubblicitaria effettuata con manifesti bilingue (in italiano e Veneto) che copre gran parte del Veneto a indicare la nazionalità veneta in occasione del Censimento Decennale. Dietro questa sigla di fantasia troviamo in realtà l’opera di militanti di diversi movimenti autonomisti veneti che per la prima volta dopo tanti anni di divisioni, riescono a realizzare una iniziativa comune, senza simboli partitici e quindi portando un riscontro politico a tutta l’area.

GLI AVVENIEMNTI RECENTI

Nella primavera del 2002, ad un anno di distanza dalle politiche, si presenta un test amministrativo importante.

Vanno al voto due province, Vicenza e Treviso e molti comuni di rilevanti dimensioni.

L’ordine per la Lega Nord è di preferire anche a livello locale accordi con il Polo Delle Libertà,ma le forti differenze di metodo e programma che emergono durante le trattative fanno sì che in molti comuni la Lega si presenti in solitudine.

Per la provincia di  Treviso il candidato della Lega Nord è il presidente uscente Luca Zaia che rischia il tutto per tutto correndo da solo:viene appoggiato da una lista civetta della lega, “Forza Marca” con il simbolo simile a quello della Liga Fronte Veneto. Quest’ultima presenta Fabio Padovan, che si  deve confrontare anche con Alpi Adria che riesce a raccogliere le firme necessarie e presenta Giovanni Favaretto.

I risultati premiano Zaia che va al ballottaggio con il 43,3% contro il candidato della sinistra Bottacin. La Lega Nord prende il 26,9%, Forza Marca il 6,7%, la Liga Fronte Veneto  appena l’1,8% mentre Alpi Adria arriva al 0,4%.

A Vicenza la lega ripresenta il suo presidente uscente Manuela Dal Lago ma in una coalizione insieme a tutta la Casa Delle Libertà. Viene eletta al primo turno con il 57% ma la lista della Lega crolla al 16%.

La L:F.V arriva al 3,8% e riesce ad eleggere Ettore Beggiato mentre Alpi Adria ripete con Carlo Giuseppe Milani il risultato di Treviso.

Nei comuni vanno segnalate le vittorie a Cittadella (Pd) della Liga Fronte Veneto, a Jesolo (Ve) della Lista Renato Martin (espressione di V.R.F.P.) e le vittorie in solitudine della lega a Piombino Dese (PD) e Villorba (TV).

Ma a parte questi casi isolati l’area autonomista mostra in generale grandissime difficoltà ad ottenere risultati apprezzabili.

Cinque anni di durissimi lotte intestine, speso sulle prime pagine dei giornali locali, hanno portato a un drastico calo di credibilità politica, con conseguente calo di consensi e di militanti.

Ma al di là di questo tutti i partiti hanno dimostrato una miopia generale che li ha portati a dimenticare che certe battaglie originarie andavano portate avanti.

La difesa della lingua, delle culture locali e dell’ambiente, la creazione e la riscoperta dell’identità etnica e linguistica, se in tempi di vacche grasse danno meno frutti delle battaglie, peraltro giustissime, contro gli sprechi, contro la burocrazia e per il federalismo, in tempi come questi, di vacche magre, avrebbero evitato emorragie di consensi ma soprattutto di militanti.

Le rendite di posizione sono oramai scadute e l’autonomismo paga le conseguenze della mancanza di investimenti in “cultura”, l’unica arma che a lungo termine può far vincere una battaglia identitaria.

 

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L’ARTICOLO E’ TRATTO DA http://www.rivistaetnie.com/storia-autonomismo-veneto/